Una parola allo sfiduciato – Domenica della Palme 2023

Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo,

perché io sappia indirizzare

una parola allo sfiduciato.

Ogni mattina fa attento il mio orecchio

perché io ascolti come i discepoli.

(Is, 50, 4)

 

La fiducia è la colonna vertebrale dell’esistenza umana. Se si è persone capaci di fiducia in sé stessi, negli altri, nel mondo e nella vita allora si può tutto, davvero tutto: resistere alle intemperie, restare in piedi in mezzo ad una tempesta, rialzarsi quando si cade e aiutare gli altri a farlo, senza rinchiudersi nella prigione dorata ma angusta della comfort zone. La fiducia è essenziale per la vita, per una vita sana e libera, per una vita degna di essere vissuta. Ma quando la fiducia viene a mancare chi potrà mai ristabilirla? Quando si smarrisce la bussola, quando non si crede più nella bontà del mondo, della vita, degli altri, perfino di sé stessi, cosa si può fare? Se l’esperienza della fiducia è radicata nel profondo del nostro corpo e della nostra psiche, se ci rimanda alle prime esperienze della nostra umanità, alla sensazione di essere stati almeno una volta amati veramente per il semplice fatto di essere al mondo, se cioè nasce all’interno di un rapporto d’amore allora di conseguenza solo l’amore potrà ristabilirla. La fiducia, infatti, non la si apprende ad un corso universitario ma alla cattedra delle relazioni sane. Una relazione sana genere fiducia, una relazione malata la spezza.

 

Quanta fiducia “spezzata” in questo nostra epoca! Quanti uomini e donne, quanti giovani e ragazzi fanno fatica a guardare al futuro con occhi sereni, avvertendo i luoghi e i tempi che vivono come inospitali, ristretti, inabitabili! Questa nostra umanità ha bisogno di un’iniezione di fiducia ma se è vero che la fiducia nasce da relazioni autentiche fondate su un amore libero e sano allora vuol dire che occorre tornare ad essere discepoli dell’Amore, di quell’amore che non si impara per prescrizione ma per esperienza, che non si conquista con qualche tecnica specialistica ma con la pratica costante, di quell’amore che non conosce maestri ma solo discepoli.

Ogni volta, infatti, che si parla dell’Amore (e quindi di Dio!) con supponenza, arroganza, sentendosi detentori unici della sua verità si generano realtà che poco hanno a che fare con la fiducia: sensi di colpa, frustrazione, dinamiche gerarchiche, di esclusione, di giudizi inappellabili.

Il profeta Isaia – letto nel contesto liturgico di questa domenica di Passione – ci racconta invece di un uomo che intende parlare a chi si sente sfiduciato, a chi ha mollato la presa e crede che non ci sia più possibilità di vita.  Isaia sottolinea che a parlare a chi ha perso la fiducia possono essere solo persone capaci di riconoscersi come discepoli, abitate dall’umiltà dell’ascolto, abituate alla pratica dell’obbedienza alla vita più che ai propri schemi e alle proprie paro

le asfittiche. Occorre una lingua da discepolo per parlare a chi ha perso la fiducia e per averla occorre imparare ad ascoltare, ogni giorno, ogni mattino, una Parola altra da noi. Noi siamo le parole che ascoltiamo. Se ascoltiamo parole di vita saremo vita. Se ascoltiamo parole di morte saremo morte. Se ascoltiamo parole di pace e di giustizia allora diverremo uomini capaci di pace e di giustizia. Se ascoltiamo parole di bellezza e di eternità allora giù qui, tra le maglie a volte grigie dei nostri sentieri, saremo capaci di aprire varchi di bellezza, di abitare spazi di eternità.  Se ascoltiamo parole di dono e condivisione allora la nostra vita sarà dono e condivisione, arrivando a parlare al cuore di chi crede di non essere degno di nessun dono condiviso. Restituendogli in questo modo il senso del suo valore, della sua originalità, della sua preziosità insostituibile e incalcolabile.

Questo è quello che ha fatto Gesù di Nazareth. Ha parlato a degli sfiduciati. A degli uomini messi ai margini dal potere religioso, politico, sociale. I vangeli ci raccontano di come più che il tempio e la sinagoga prediligesse il silenzio della notte, per asco

ltare la parola di quel Padre il cui volto, per come lo ha narrato con le sue parole e con i suoi gesti, è più simile a quello di una madre tenerissima che di un giudice implacabile.

La sua morte non è stata un sacrificio religioso, né l’offerta di un’espiazione ad un dio assetato di sangue. La sua morte è stata la conseguenza della fedeltà a quelle parole di amore e di vita che ogni giorno ascoltava dal Padre e donava ai suoi disce

poli nel tentativo di ridestare in loro la fiducia in una storia governata non dal potere ma dall’Amore. Da un Amore così reale e sconfinato da far tornare sui propri passi perfino la morte, generando una fiducia piena e folle negli sfiduciati di ogni epoca e di ogni luogo, in coloro che guardando alla sua croce avrebbero imparato a scorgere non il dito accusatore e mortificante di un dio lontano ma il sorriso sereno e premuroso di un Dio vicino, così vicino da abitare tra le ferite dei cuori e della storia, da potersi incontrare in ogni esperienza di bellezza, da poter essere celebrato in ogni esperienza di amore autentico e servizio disinteressato.