Vittime e schiavi della volontà di (D)io

Dio - Wikipedia

“Sia fatta la volontà di Dio. In shāʾ Allāh, se Dio vuole. Che le fedi monoteistiche mettano al centro la volontà di Dio è un dato teologico indiscusso. Dall’ebraismo all’Islam, passando per il cristianesimo, l’adesione perfetta del discepolo alla volontà di Dio è il criterio decisivo per verificarne la fede. La volontà di Dio, la sua ricerca e la sua messa in pratica hanno così occupato un ruolo centrale nei fedeli, tanto da farne non solo il cuore di ogni discepolato e religiosità, ma anche il paradigma di tutto l’esistente, lo schema di riferimento all’interno del quale comprendere il proprio percorso, le grandi leggi della natura e ogni evento, anche il più piccolo e insignificante. Molti proverbi esprimono bene questa comune credenza: “non si muove foglia che Dio non voglia”, “quando Dio vuole, a ogni tempo piove”, “l’uomo propone e Dio dispone”.

 

L’UOMO E LA VOLONTÀ DI DIO

Senza entrare nella storia di concetti simili e differenti – come ad esempio quelli di destino, fato, sorte – presenti in altre religioni, filosofie e culture, è opportuno evidenziare come in ogni tempo e spazio l’uomo tenda a dare voce al proprio disorientamento interiore rispetto all’imprevedibilità del mondo, attribuendo a Dio non solo cose divinamente belle ma anche situazioni diabolicamente brutte, come ad esempio sciagure personali, malattie, crisi sociali, rovinose miserie, lette spesso come una mancata “benedizione” da parte di Dio se non addirittura una sua maledizione.

Conta poco se si è credenti o meno: spesso queste credenze emergono sotto forma di sfoghi impulsivi anche dal cuore di persone poco religiose se non addirittura per nulla credenti, in contesti di fede come in ambiti in cui ci si riferisce ad altro. Pensiamo solo ad una recente canzone in cui il cantautore milanese Tananai, pone sulle labbra di un soldato l’interrogativo sul “chissà perché Dio ci pesta come un tango”, dando voce all’urlo silente di chi attribuisce alla divinità un’opera causata chiaramente dall’uomo, la guerra.

Dalla preistoria ad oggi, ogni qualvolta l’uomo si trova dinanzi al male del mondo, ad un deficit di significato, ad un evento crudele o ad una situazione difficile da reggere, tende ad attribuire inconsciamente o meno ad un essere superiore ciò che gli accade, ciò che lo angoscia e lo provoca. La psicologia potrebbe rintracciare in questo dato antropologico la necessità di “dar senso anche all’insensato”, e soprattutto al male insensato perché c’è una cosa per noi ancor più insopportabile della sofferenza: la mancanza di significato.

Questo ricorrere continuamente alla volontà di Dio porta così due vantaggi psichici che consistono in primis nell’ottenere una spiegazione del male (in cui ovviamente Dio non ci fa una bella figura) e in secundis nel coltivare la speranza che attraverso un sacrificio, un rito riparatore o chissà quale altra magia la Divinità possa placarsi, interrompere la causa della sofferenza e far tornare il sereno nella vita di chi lo invoca. A questi due vantaggi si aggiunge poi il meccanismo di difesa della sublimazione, per cui la ribellione intima ed inconscia verso un presente fatto di sofferenze interne ed ambientali avvertite come inspiegabili ed insopportabili fa sì che esse vengano invece gestite attivamente trasformandole in qualcosa di accettabile e in un certo qual modo condivisibile: questa è la base di una certa spiritualità sacrificale ed espiatoria, da secoli fonte di male psicologico e sociale. Il male da combattere diventa occasione di sacrificio, il dolore da attraversare diventa godimento masochistico, la croce è goduta di più del sepolcro vuoto.

 

GESÙ E LA VOLONTÀ DI DIO 

Nell’esperienza gesuana, lo stesso Maestro di Nazareth ha più volte insistito sull’importanza decisiva di compiere la volontà del Padre, arrivando a definire fratello, sorella madre, chi la vive (Mc 3, 35), insegnando ad invocarne la realizzazione nella preghiera (Mt 6,10), mettendola al di sopra di tutto, perfino della paura della sofferenza e della propria morte (Lc 22, 42).

Il Vangelo giovanneo esprime chiaramente che Gesù dipende in modo totale dalla volontà del Padre: tale volontà è il suo cibo (Gv 4,34), il senso della sua missione (Gv 6, 38), e ha per tutti gli uomini uno scopo ben preciso (Gv 6, 39) che consiste nel donare agli uomini la gioia piena (Gv 16,24) e la vita eterna, una vita presente già nella storia di ciascuno ma capace di superare perfino il tempo, perché iscritta nell’orizzonte della resurrezione (Gv 6,40; 6,47). Per Gesù la volontà di Dio non è un copione prefissato da recitare ma bensì un progetto in cui l’uomo è protagonista nella misura in cui si impegna a manifestare l’amore del Padre in un modo creativo, irripetibile, fantasioso, originale, impregnato della bellezza del bene, bellezza capace di attraversare e vincere la morte.

Vita, gioia, pienezza, eternità: questo è il lessico che appare dar forma alla volontà di Dio secondo il pensiero di Gesù di Nazareth, almeno per come lo descrivono i Vangeli. E la via per realizzarla appare molto semplice e lineare: amare (Gv 13,14) e fare del bene senza alcun scopo o premio che il bene stesso (Mt 25).

Tutto il resto, diceva sempre una canzone, è noia. O meglio lo sarebbe stato se il concetto stesso di volontà di Dio – anche nell’esperienza cristiana – non fosse stato fatto coincidere nel corso dei secoli con il preciso adempimento di doveri religiosi, di prescrizioni rituali e di atteggiamenti supini verso coloro che sono riusciti a farsi ritenere interpreti unici e rigidi custodi di questa volontà. Anche questa è una trama trasversale a molte fedi e non di meno lo è anche per coloro che si ritengono discepoli di Cristo, da lui convocati nella sua chiesa, o meglio nelle sue chiese (anche gli scismi in fin dei conti avvengono per un’interpretazione differente di questa volontà divina e poiché ognuno crede la sua valida e vera si ritiene autorizzato dallo stesso Dio a portare avanti il proprio modo di essere chiesa se non addirittura a fondarne un’altra) frutto di scissioni non di rado anche violente.

 

LA CHIESA E IL SUO PARADIGMA

Spesso le chiese cristiane, piuttosto che accompagnare gli uomini a comprendere come vivere quella vita piena e gioiosa, fondata sull’amore e sul bene, voluta da Gesù, hanno abusato del concetto di volontà di Dio con risvolti spesso drammatici da un punto di vista sociale ma anche individuale.

A tal proposito, visto lo scopo non esaustivo della presente argomentazione, offro due semplici esempi che riguardano rispettivamente il paradigma ecclesiastico e il cammino individuale.

Il paradigma è un modello di riferimento, uno schema mentale e culturale attraverso cui si legge e si interpreta la realtà. È lo schema, il filtro, l’occhiale attraverso cui la nostra mente elabora i dati del reale, interpretandoli, elaborandoli.

Con quale paradigma, ad esempio, la chiesa cattolica ha affrontato due crisi terribili che stanno avvolgendo di ansia e terrore la terra negli ultimi tre anni? Qual è rapporto c’è stato tra la pandemia, la guerra russo-ucraina e la volontà di Dio? Per rispondere a queste domande vorrei utilizzare il principio della “lex orandi, lex credendi” che afferma che il contenuto della preghiera equivale al contenuto della fede.

Nonostante stiamo vivendo un cambiamento d’epoca e non più un’epoca di cambiamenti, come Papa Francesco ha più volte affermato, la lex orandi attraverso cui la chiesa – in questo caso quella cattolica – ha risposto all’angoscia derivante da questi eventi nefasti è stata pressappoco la stessa che da secoli offre in condizioni simili: processioni di statue miracolose, consacrazioni di stati e nazioni alla Vergine Santa, impetrazioni e digiuni, e altre pie pratiche aventi come scopo il cambiamento della volontà di Dio.

Sì, perché se Dio può intervenire per porre termine a queste cose vuol dire che sebbene non sia lui a compierle ma l’uomo o la natura, è certamente lui a permetterle e lo si potrebbe accusare di omissione se non fosse giustificato dal fatto che tale permissione è dovuta al peccato umano. Tra l’altro è sotto gli occhi di tutti che l’emergenza da covid-19 è terminata grazie al progresso scientifico e all’informazione sanitaria e che la consacrazione della Russia e dell’Ucraina al Cuore Immacolato di Maria non ha certamente messo fine alla guerra.

Di conseguenza, il paradigma con cui la chiesa affronta il problema del male rapportandolo alla volontà di Dio e facendosi mediatrice di impetrazione verso di lui con i riti e i simboli che gli sono propri almeno dal medioevo, manifesta una distanza incolmabile con la cultura contemporanea ed è tale distanza la causa della sua reale difficoltà ad evangelizzare e a parlare al cuore degli uomini e delle donne del nostro tempo.

Non è un problema di linguaggio ma di paradigma: non basta il prete social, la suora che fa il tiktok, il catechista alternativo e il gruppo giovani che fa la serata disco nel salone parrocchiale per parlare al cuore e alle menti dei figli e delle figlie di questo tempo. Occorre mutare paradigma riconoscendo che abbiamo sacralizzato le nostre interpretazioni e credenze, rivestendo le nostre paure e proiezioni con il termine “volontà di Dio”, fino ad utilizzare questo concetto anche per fini di potere e di prestigio sociale (oggi quasi del tutto scomparso) che poco hanno a che fare con il Figlio dell’Uomo il cui unico paramento sacro è stato il grembiule utilizzato per lavare i piedi ai suoi discepoli.

La volontà di Dio ha generato però altri equivoci come quelli, ad esempio, riferiti al cammino individuale nel suo rapportarsi alla volontà di Dio.

A tal proposito si utilizza spesso la parola chiamata e il termine vocazione con cui comunemente si intende l’adesione incondizionata e immutabile da parte della persona al progetto rigido che dall’eternità Dio ha stabilito per lei e la cui validazione ultima è espressa in modo insindacabile dalla gerarchia ecclesiastica: solo se la persona riesce a dire “sì” a questo progetto, può essere felice ma, se sbaglia, cambia idea o strada, allora la dannazione è certa e l’infelicità sicura. Anche in questo senso la volontà del Dio infallibile appare peggiore della volontà dei genitori umani, così fallibili e deficitari ma in genere pronti a dire ai figli la l’unica frase degna dell’amore: “Se sei felice lo sono anche io”.

Anche se nel Vangelo l’unica chiamata offerta da Gesù è quella al discepolato e alla realizzazione della volontà di Dio nella modalità poc’anzi citata, cioè quella dell’amore e del bene, nel tempo la comunità cristiana ha trasformato la propria forma organizzativa – sempre perfettibile – in una struttura sacrale e immutabile a cui si accede per divina volontà e sacra chiamata, una chiamata che comporta perfino una differenziazione eterna ed ontologica degli eletti, donando a coloro che da essa sono destinati al sacramento dell’ordine una differenza sul piano dell’essere e non solo dell’agire.

Ovviamente in questi casi chi riesce a cogliere tale chiamata e a viverla in eterno nella forma decisa dalla gerarchia (interprete ultima della volontà di Dio) è destinato alla felicità in terra e in cielo ma chi dovesse cambiar strada, qualsiasi sia il motivo, è spesso visto come un infedele o un debole, probabilmente destinato ad essere infelice.  A tal proposito, qualche giorno fa lessi di uno scambio epistolare tra un presbitero che stava per lasciare il ministero e il suo vescovo, in cui quest’ultimo lo invitava ad essere felice nell’unico modo possibile: dicendo nuovamente si alla volontà di Dio e agli impegni della sacra ordinazione.

In realtà da questa fedeltà al “primo si” non si salva nessuno: anche chi a causa di ferite, difficoltà e fragilità ha visto il proprio matrimonio fallire è stato riservato lo stesso trattamento e bollato come un traditore della divina volontà espressa e suggellata dal sacramento nuziale.  In altri casi, come quello degli omosessuali, viene richiesta invece una fedeltà al “no” della divina volontà, la quale sembra spesso interessata più di sessualità umana che di giustizia quotidiana, pace interiore, convivialità delle differenze.

Fino a quando la vocazione verrà pensata come l’adesione incondizionata dell’uomo ad una volontà particolare di Dio che si traduce in una forma di vita da lui prefissata si continuerà non solo a tradire la verità ma anche a mortificare la libertà dell’uomo, la sua crescita ed evoluzione. In realtà Dio chiama tutti alla medesima cosa: crescere, fiorire, amare, contribuendo alla crescita, alla fioritura e alla capacità d’amore dell’intera creazione. Ognuno poi sceglie nel concreto come vivere questa chiamata. Con la sua creatività, il suo stile, la sua libertà.

 

CAMBIARE ROTTA VERSO NUOVI SIGNIFICATI

La dose di sofferenza, la quantità di sintomatologie depressive e il livello di infelicità che la concezione antropologico-magica della volontà di Dio ha prodotto nei secoli sono incalcolabili.

Ora è arrivato il momento di cambiare rotta. Ripartendo dall’essenziale espresso dal vangelo ma intuibile da ogni uomo e ogni donna, di ogni fede o di ogni spazio, che impari ad ascoltare in modo sano e sereno quell’intuizione profonda che abita il cuore di tutti, prima ancora che esso sia contaminato dai pregiudizi culturali e storici. Quell’intuizione ci dice che tutti ma proprio tutti anelano alla vita, alla gioia, alla pienezza, all’eternità, godendo dell’amore donato e ricevuto, del bene goduto e condiviso.  È in questa intuizione del cuore – che Gesù di Nazareth ha meravigliosamente espresso nella sua umanità – che risiede la volontà di Dio o meglio di quel mistero di amore e di vita che siamo soliti chiamare Dio.

E se dinanzi al Dio dei cleri di ogni fede e religione spesso ci si può dire atei, nessuno può dirsi del tutto tale dinanzi all’Amore sorgivo e vitale. Ed è quest’Amore che Gesù di Nazareth ha chiamato Padre. Questo Amore sorgivo è l’essenziale di cui tutti gli uomini, di ogni luogo e di ogni tempo, di ogni fede e di ogni cultura hanno e avranno sempre bisogno per portare a compimento la propria umanità. Ed è a quest’Amore che siamo chiamati a tornare ogni volta che il cielo diventa di marmo e l’asfissia di un mondo abitato dal male ci afferra.

L’unica vera conversione necessaria e possibile parte anche da qui, dal ritorno all’essenziale, dal coraggio di tornare all’origine non solo storica ma spirituale e umana di quella volontà di Dio raccontataci da Gesù di Nazareth con le sue parole, con la sua vita, con la sua Pasqua. E per farlo, occorre più che mai rivedere e risignificare termini come volontà di Dio, vocazione, chiamata. Non è questione di aggiornamento e di moda ma di fedeltà al nucleo del Vangelo e ai bisogni più sani e genuini dell’umano.