Lo Spirito ribelle che consacra le differenze

Un unico popolo, un’unica lingua, una città e una torre. Più che di unità,  l’insistenza della Genesi (11,1-9) ha il sapore dell’omologazione, più della comunione queste parole sembrano riferirsi a un pensiero unico, più che una crescita interiore e relazionale il progetto della torre mira ad un’affermazione di potere e di fama. Così, con il suo genere mitologico, l’autore biblico mette in scena la dinamica del potere fondato da sempre sul tentativo di omologazione e massificazione: del pensiero, del costume, del lessico, del consumo.  Nulla di nuovo sotto il sole: cambiano i poteri, gli scopi, le forme e le strutture. Ma il copione é lo stesso: in fondo il politicamente corretto odierno, la stigmatizzazione di chi canta fuori dal coro del sistema globale, il consumismo omologante e imperante, arrivato a ridurre perfino la spiritualità a merce di consumo, sono tutti i sintomi di un sistema di potere che cerca di governare il mondo e sfidare la logica dell’universo.  Per questo il racconto della Torre di Babele,  concludendosi con un rovesciamento del potere, con l’innesco di una dinamica “ostinata e contraria” a quella dell’omologazione – la dinamica sacra della differenza – dona fiducia e speranza. Dio distrugge la torre ma costruisce la diversità, confonde le lingue ma consacra la differenza, mette fine alla ripetizione di un’unica parola e obbliga a quella fatica necessaria a comprendere l’altro, fatica indispensabile alla logica evolutiva  della creazione. Senza la diversità il dialogo diventa un monologo autoreferenziale. Senza lo sforzo di capire l’altro l’incontro si trasforma in uno specchiarsi narcisistico. Senza la contaminazione del pensiero le melodie si riducono ad un rettotono stancante. Senza il coraggio di parole altre, a ridursi non è solo il lessico e le pagine del vocabolario ma anche lo spettro delle idee e la capacità di lasciarsi toccare dalla verità di cui nessuno può dirsi possessore unico.  La liturgia  romana non a caso pone questo racconto nella festa di Pentecoste, presentandolo insieme al racconto lucano della discesa dello Spirito nel cenacolo. Lo Spirito di Dio infatti distrugge così ogni tentativo di conformismo ed omologazione, ogni possibilità di pensiero unico e restituisce alle donne e agli uomini la responsabilità dell’incontro, la possibilità di pensare diversamente da come pensano tutti, di sentire diversamente da come sentono tutti, di fare diversamente da come fanno tutti.  A Babele non si manifesta nessuna punizione divina ma solo la preservazione dell’unicità, la difesa della libertà, la consacrazione della differenza. Questa è l’opera dello Spirito. Di quella energia di Amore che non ha volto perché ha tutti i volti, che non ha nome perché possiede ogni nome, che non coincide con nessun luogo perché abita in tutti luoghi, che non ha un corpo fatto di atomi e cellule perché respira in ogni atomo della materia e in ogni cellula vivente. Quando il mondo, la società, un’organizzazione, una chiesa fanno dell’omologazione la propria divisa, di un’ idea un recinto invalicabile, della crescita della propria struttura l’unico scopo di vita – sacralizzando ruoli, creando miti impossibili, imponendo un unico pensiero – si sta realizzando il più grande dei peccati, perché si sta sfidando la logica creativa di Dio, l’opera del suo Spirito d’Amore. Credere in questo Spirito ribelle (all’uomo ma fedele a se stesso) è un esercizio di fiducia e di liberazione. Rintracciarne il cammino sotterraneo tra i solchi della nostra esistenza così poco lineare e travagliata fa risorgere i significati perduti e il senso smarrito. Intuirne i movimenti indecifrabili a chi crede di aver capito tutto ma paradossalmente chiari a chi mendica un di più di visione, è l’inizio di rivoluzioni pacifiche, di nuovi flussi di vita, di rinnovamenti personali e comunitari. Percepirne la forza guaritrice fa guardare alla propria esistenza ferita con una speranza nuova, capace di trasformare le cicatrici di un rigido inverno in fioriture di una nuova primavera.