La sconcertante notizia di conoscere, servire, amare Dio senza saperlo

La parabola regale del giudizio finale è uno dei testi maggiormente citati nella predicazione, soprattutto in quella riguardante la necessità della carità, del servizio, dell’accoglienza. Secondo alcuni esegeti, d’altronde si tratta proprio di questo, di un’omelia sulla carità fraterna, inserita per darvi maggiore rilevanza nell’ambito del contesto regale legato al giudizio finale.

La regalità del Cristo – categoria ovviamente metaforica e allusiva – d’altronde non si esprime in altro modo se non quello relativo al servire concretamente l’altro. E non l’altro “generico”, l’altro declinato in “categorie”: gli ammalti, i marginali, i sofferenti. No, Gesù ha servito concretamente chi ha bussato alla porta della sua vita, compiendo il bene a coloro che glielo domandavano, a coloro che chiedevano di essere visti, toccati, guariti attraverso la relazione con lui. In altre parole, come afferma l’autore di At 10,38, il Maestro passò beneficando e risanando tutti e di conseguenza la sua vita rappresenta già il giudizio su ciò che salva l’uomo: la sua scelta di compiere il bene possibile, senza interesse diverso dal bene stesso. Foss’anche l’interesse religioso di un premio finale.

Per questo il brano odierno è una notizia bella ma sconcertante. È bella per coloro che sono convinti che l’unica via per l’umanizzazione dell’esistenza e per cogliere il significato profondo della vita risieda nel fare il bene, creando spazi di bellezza e bontà dentro e fuori di sé per far in modo che altri possano trovarvi ristoro. È sconcertante per tutti coloro che schiavi (a volte anche consapevolmente) dei propri schemi religiosi di riferimento credono che il bene e il servizio all’altro siano solo un’appendice buonistica a quello che è il grande scopo della religione: far conoscere la verità e renderle culto. Per carità, nessun disprezzo verso queste cose, antropologicamente e comunitariamente necessarie, ma per Gesù di Nazaret a salvarci non è tanto la conoscenza che noi abbiamo di Dio ma quella che Dio ha di noi, non è tanto la consapevolezza di cosa sia l’Amore ma quella che ha l’Amore nel rintracciarsi all’interno dei movimenti più reconditi e indecifrabili della nostra coscienza. Essa è l’unico luogo sacro e inviolabile da cui viene fuori tutto ciò che di buono ma anche di malvagio c’è nelle microscopica come nella macroscopica rete delle interazioni umane.

Ciò che è sconcertante nel racconto di Matteo 25 è infatti è l’assoluta, onesta, spudorata e dichiarata consapevolezza degli interlocutori del re di non aver fatto nulla per il sovrano ma di aver semplicemente compiuto il bene per i “piccoli” che avevano incontrato sul loro cammino: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.

È incredibile: se è vero che queste parole esprimono la totale identificazione di Cristo con coloro che sono nella sofferenza e nel bisogno e che pertanto questa consapevolezza donataci dal Vangelo ci ricorda che non c’è strada diversa da percorrere per coloro che si riconoscono nella via cristiana, è altrettanto vero che esse “canonizzano” non l’uomo religioso e “pio”, ma l’uomo e la donna che indipendente dalla fede dichiarata compiono il bene senza altro scopo che il bene stesso.

Sì, dopo aver letto queste righe, possiamo felicemente risparmiarci le pie raccomandazioni del tipo “fallo per amor di Dio”. Se proprio necessaria, la nostra esortazione dovrebbe essere “fallo per amor dell’uomo”. E se proprio volessimo essere pignoli, dovrebbe tramutarsi in “fallo per amor di quest’uomo, di questa sua storia, di questo suo volto, di questo suo nome, di questo suo cuore che cerca, invoca e chiama il tuo cuore”.